vittorio polito
giornalista pubblicista scrittore
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Di(a)lettiamoci così senza rancore…,  pubblicato su www.giornaledipuglia.com

Il dialetto, patrimonio di cultura e saggezza di un ambito territoriale, secondo alcuni, riveste scarsa importanza, mentre appare sempre più evidente come la somma dei valori umani e spirituali delle diverse località – che si trasmettono in special modo attraverso il linguaggio – caratterizzino l’identità di una nazione. Così, la poesia dialettale, che rappresenta l’espressione immediata dei nostri sentimenti, va risvegliando sempre più l’interesse da parte dei cultori, degli studiosi e di tutti coloro che se ne servono per deliziarsi e dilettarsi e per dare sano sfogo alle proprie sensazioni.
Ma cos’è un dialetto? Dal punto di vista glottologico ed espressivo, non c’è alcuna differenza tra lingua letteraria e dialetto: entrambe hanno una formazione storica dovuta a fattori molto complessi, anche se esprimono una tradizione di cultura e letteratura. È errato quindi ritenere che i dialetti siano una degradazione della lingua letteraria. La verità è che tra il concetto di “dialetto” e quello di “lingua letteraria” esiste solo un rapporto logico, per cui l’una cosa non può intendersi senza l’altra, tanto che sarebbe assurdo parlare di dialetto senza presupporre una lingua nazionale e viceversa. È anche vero che il dialetto fornisce quella sicurezza e quella certezza della nostra provenienza, delle nostre radici, alle quali, nonostante tutto, siamo e saremo ancorati, malgrado i tentativi ingegnosi o maldestri che vengono messi in atto per tagliare questo importante e vitale cordone ombelicale.
Una poesia in dialetto, ad esempio, è per definizione possibile, solo quando esiste una lingua nazionale comune, rispetto alla quale, per ragioni diverse essa tende a distinguersi. Fino al Cinquecento troviamo documenti letterari che presentano spiccate caratteristiche dialettali, che però non vengono sentite come alternative o addirittura oppositive alla lingua letteraria nazionale. È nel Cinquecento che Ludovico Ariosto (1474-1533) decide di toscanizzare l’Orlando furioso, che acquista fortuna attraverso la versione di Francesco Berni (1498-1535) dell’Orlando innamorato.
In occasione della morte di Raffaello Baldini (1924-2005), uno dei maggiori poeti dialettali della seconda metà del Novecento, Patrizia Valduga scriveva su “La Repubblica” del 30 marzo 2005 che «Si può usare il dialetto, infatti, come lingua della poesia, e dare parola a chi la parola non l’ha mai avuta e conferire a questa parola lo spessore espressivo che ha la lingua scritta».
Giacomo Noventa, pseudonimo di Giacomo Ca’ Zorzi (1898-1960),  usava un dialetto veneto un po’ particolare, ripulito da eccessi gergali e motivava consapevolmente questo ricorso al dialetto sostenendo che «Nei momenti che ’1 cuor me se rompe / mi no’ canto che in Venessian» (Nei momenti in cui il mio cuore soffre, io canto solo in veneziano), e che «No’ gh’è lengua che valga el dialetto / che una mare nascendo ne insegna» (Non c’è lingua che valga il dialetto che una madre ti insegna nascendo).
Nel Novecento la lingua italiana tende a diventare progressivamente la lingua anche dell’uso comune, ma non in modo diffuso almeno sino ad anni a noi molto vicini. Si aggiunga il fenomeno della dialetto-fobia, diffusosi soprattutto nel ventennio fascista, ma in qualche misura fenomeno connaturato allo sforzo da parte delle istituzioni del nuovo Stato unitario di unificare di fatto la lingua degli italiani. Ciò rende da un lato ancora attuali le scelte del dialetto in polemica con la lingua letteraria nazionale, sentita come artificiosa ed elitaria, ancora in parte estranea alla realtà della vita vissuta. Da un altro lato si aprono più consistenti spazi e occasioni per altre motivazioni, più personali e intime, della scelta linguistica dialettale.
L’insoddisfazione nei confronti della lingua letteraria nazionale, aristocratica e limitata nei registri espressivi, può determinare l’opzione per il dialetto come una lingua vergine e istintiva, come lo strumento più adatto per dare voce al fondo autentico del proprio io.
Per restare dalle nostre parti, a proposito della poesia dialettale, è il caso di ricordare che la Fondazione “Pasquale e Angelo Soccio” di San Marco in Lamis (FG) organizzò nel 1999 un Convegno dedicato alla Poesia dialettale pugliese del Novecento, del quale sono stati pubblicati, a cura di Giuseppe De Matteis, gli Atti relativi (Edizioni del Rosone).
Per l’occasione illustri relatori del calibro di: Michele Dell’Aquila, Achille Serrao, Giuseppe De Matteis, Daniele Giancane, Donato Valli e Ugo Vignuzzi, si sono cimentati a trattare temi relativi alla poesia dialettale in Italia, nella Daunia, in Terra di Bari e nel Salento.

Daniele Giancane, docente nell’Università di Bari, nel suo intervento ha affermato che: «Il dialetto negli autori più significativi e intensi, non è più il codice dell’inferiorità linguistica e neppure dell’alternativa: è un linguaggio, che offre al poeta delle possibilità (sonore, retoriche, sintattiche), diverse rispetto a quelle della lingua. Non per nulla i poeti spesso seguono entrambi gli itinerari, con uno sforzo semantico e intellettuale di grande respiro: siamo bilingui e interculturali – pare che dicano – è bene non dimenticarlo, soprattutto che ci si apre ai nuovi linguaggi dell’Europa».
Ugo Vignuzzi, ordinario di Dialettologia all’Università “La Sapienza” di Roma, ha sostenuto, tra l’altro, che «Bisognerebbe inserire il dialetto, in tutte le sue forme, nel quadro dei beni culturali, valorizzarlo a questo scopo, fare in modo di farlo conoscere, anche organizzando, come è stato fatto in molte zone d’Europa, giri turistico-culturali, gastronomici, etnografici, in cui c’è l’incontro con un gruppo folcloristico e, ancora, si vede una cosa di teatro dialettale, si mangia in particolari ristoranti tradizionali, si incontra un artigiano, un ceramista, un pescatore e così via: sono tutte cose, queste, che hanno ricadute economiche, e servono a valorizzare quello che è il nostro vero tesoro, quello che chiamiamo “giacimenti culturali”, ma che poi non sappiamo usare. Tutto questo non solo banalmente a livello economico, ma soprattutto per portare di nuovo, a livello di massa, l’esperienza dialettale». Inoltre, ha evidenziato il valore dei dialetti e la necessità del loro recupero. La poesia dialettale, ha osservato, improntata a spontaneità e naturalezza, è esistita da sempre.
Una menzione particolare merita Pasquale Sorrenti (1927-2003), scrittore e poeta barese, per il suo volume “La Puglia e i suoi poeti dialettali”, una sorta di antologia vernacolare pugliese dalle origini ad oggi. Sorrenti fa una breve storia della poesia popolare, dei dialetti pugliesi e della poesia d’arte, riportando un ampio repertorio di autori e di poesie relative a diverse località della Puglia. «La poesia dialettale - scrive Sorrenti - ha l’obbligo di non attingere alla lingua madre; anzi, al contrario essa deve fornire a questa i modi di dire spesso efficaci e insostituibili che nascono nella mente popolare. Nei discorsi tra plebe e plebe fioriscono idee chiare che in una lingua ufficiale sembrerebbero stonature. E poi, chi può mettere in dubbio che la maggior parte della gente parla il suo dialetto più che l’italiano? Il dialetto è un linguaggio vivo, aderente, fatto quasi su misura per dire certe cose, ed è quello che più spesso tiene a mantenersi puro». Quello che non ha senso è la ricerca affannosa della terminologia dialettale arcaica che, anche se incuriosisce, è di esclusivo interesse degli storici, degli studiosi e dei ricercatori di dialettologia. Il dialetto, al pari di tutte le lingue, si evolve, per cui non serve tornare indietro. Immaginate se andassimo alla ricerca dell’arcaico nella lingua italiana?
Eugenio Montale (1896-1981) in un elzeviro pubblicato sul “Corriere della Sera” del 15 gennaio 1953 dal titolo “In soccorso della lingua”, evidenziava che «Aver scoperto il dialetto come ‘una lingua vera e propria’ sta a significare che la lingua ufficiale spesso è da considerare ‘insufficiente o impropria’ ad un’ispirazione».
Vito Maurogiovanni (1924-2009), giornalista, scrittore e commediografo ha scritto diverse farse in dialetto come ‘Aminueamare’, ‘Chidde dì du 188’, ‘U café antiche’. Quest’ultima rappresenta la prima opera teatrale dell’autore. Dello stesso scrittore ‘Jarche vasce’, che rappresenta una ricostruzione dei cicli della vita e dell’anno secondo la cultura della tradizione. Tale lavoro ha avuto un grandissimo successo, oltre 3000 le repliche, raggiungendo così un primato nella storia del teatro barese difficilmente superabile.
Lo stesso Maurogiovanni, in una intervista a Samantha Dell’Edera sulla «Cultura popolare», a proposito del dialetto dichiara che «C’è stata una riscoperta. E nel caso dei libri è una cosa positiva». Mentre alla domanda: «A chi spetta il compito di fare riscoprire l’importanza della cultura popolare», così risponde: «Alla scuola: gli insegnanti devono ricordarne l’importanza ai ragazzi. Non smetterò mai di ripeterlo: le nostre radici servono a capire chi siamo. Ed allora la scuola deve puntare molto sulla nostra storia, su come siamo finiti a questo punto. Gli usi e le tradizioni sono parte della crescita del ragazzo e insegnano il rispetto dei genitori, dei nonni. Ora invece tutto viene sostituito dalla TV» (Corriere del Mezzogiorno del 22.9.2008).
Il dialetto rappresenta quindi una specie di tessuto connettivo fra il passato e il presente, nel quale ogni epoca o avvenimento ha lasciato dei segni che offrono testimonianze innumerevoli intorno all’antichità della storia barese, ai contatti avuti con gli stranieri e ai costumi del luogo.
Non chi vi sta scrivendo ma Oscar Wilde (1854-1900) ha affermato: «Coloro per cui  conta  solo il presente non conoscono in realtà nulla dell’età in cui vivono; per comprendere il secolo in cui si vive, bisogna comprendere tutti i secoli che lo hanno preceduto e che hanno contribuito a formarlo».
In conclusione ricordo Giovanni Panza (1916-1994), poeta e appassionato esperto di dialetto, gastronomia e tradizioni locali, che ha lasciato, pregevoli pubblicazioni dialettali baresi bilingue, (italiano e dialetto), di altissimo livello, opere che hanno avuto notevole e meritato successo. In particolare “La checine de nononne”, più volte ristampata, rappresenta l’inventiva, la fantasia, l’amore dei baresi per la cucina. Un’altra interessante opera di Panza è rappresentata da “La uerre de Troia”  (Iliade e Odissea chendate a la pobblazione – Iliade e Odissea narrata al popolo), presentata anche questa in italiano e dialetto barese.
San Giovanni Paolo II, il Papa Grande, in occasione di un incontro con i parroci di Roma, accogliendo al volo la “provocazione” di un parroco romano, pronunciò tre frasi in romanesco «Dàmose da fà, Volèmose bbene!, Semo romani», ulteriore tangibile e autorevole segno dell’immediatezza della comunicazione dialettale.

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