vittorio polito
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Il dialetto barese? Secondo illustri studiosi internazionali è una lingua e si può usare anche la lettera J   Giornaledipuglia.com 3 agosto 2015

Si è svolto recentemente presso l’Università di Leida in Olanda il Meeting sui dialetti italiani, organizzato dalla brillante e giovane professoressa Roberta D’Alessandro, vanto scientifico italiano all’estero, direttrice del Dipartimento di Italianistica dello stesso ateneo.
Il Meeting sui dialetti italiani ha trattato molti argomenti con l’intervento di numerosi linguisti provenienti dall’Italia e dall’Estero per discutere dell’importante argomento che riguarda l’Italia tutta.
Le relazioni sono state tutte interessanti ed hanno visto la partecipazione, tra gli altri, di Michele Loporcaro, Gianna Marcato, Joan Mascaró, Lori Repetti, Ian Roberts, Leonardo Savoia e Nigel Vincent, tutti docenti ed esperti di linguistica e dialettologia di varie Università italiane e straniere.
Consultando il programma dell’evento si nota la partecipazione di numerosi specialisti e competenti in fatto di dialetti, provenienti da Università di tutta Europa (Zurigo, Vienna, Lione, Gottinga, Manchester, Londra, Cambridge, Groninga, Stoccolma, Zagabria, Rijeka, Zadar, Budapest, Varsavia) e degli Stati Uniti (New York). Molto ben rappresentate le Università italiane, numerosissime, ad eccezione di Bari e di qualche altra città, che dimostrano che i loro dialetti o parlate, interessano uno sparuto numero di competenti. D’altro canto se si considera che un presunto Comitato di 3-4 persone, senza alcun titolo accademico, ha proposto di eliminare la lettera j dall’alfabeto del dialetto barese, è abbastanza evidente lo scarso interesse che può destare la nostra parlata a tanti esperti.
Per avere un supporto scientifico a tali assurde iniziative, ho posto alcune domande alla stessa Roberta D’Alessandro, professoressa di linguistica e dialettologia e direttrice della stessa Cattedra dell’Università di Leiden, ed al dott. Luigi Andriani, dottorando di ricerca dell’Università di Cambridge.

Secondo voi il dialetto barese è una lingua o una parlata?
D’ALESSANDRO - «Mi diverte leggere il “secondo voi”: non si tratta qui di un parere, ma di un fatto. Il barese è, grammaticalmente parlando, una lingua a tutti gli effetti, con il proprio sistema fonologico e sintattico, e il proprio lessico. Il barese prosegue il latino, “deriva dal latino” diremmo, direttamente, e non è quindi un dialetto di un’altra lingua: è una lingua sorella dell’italiano. Dal punto di vista socio-storico e giuridico, ovviamente, il barese non è una lingua, in quanto non ha lo status ufficiale di lingua. Ma questo non c’entra nulla con il suo status di lingua, dal punto di vista linguistico. Ovviamente, il barese ha tanti dialetti e tante varianti, tra cui quella cittadina.»
ANDRIANI - «Senza dubbio, il barese è una lingua come lo è l’italiano (parlato) o qualsiasi altra lingua naturale o codice linguistico che funzioni sistematicamente secondo ‘regole’ fonologiche (combinazione dei suoni), morfo-sintattiche (formazione delle parole e ordine di queste all’interno di una frase) e, addirittura, pragmatiche (impiego di certe configurazioni sintattiche con particolari fini comunicativi). Ovviamente, anche il lessico fa la sua parte, ma non oserei basare i criteri di categorizzazione di una lingua su un fattore così instabile. Del resto, il termine ‘dialetto’ non verrebbe usato se non in compresenza di una lingua di ‘prestigio’ (termine non mio, ma preso in prestito dal linguista americano William Labov), utilizzata in ambiti ufficiali (amministrativo e legale) e culturali (letterario e dell’istruzione ). Tuttavia, tali fattori storico-politici e socio-culturali sono del tutto esterni ai meccanismi che regolano il funzionamento delle due (o più) varietà linguistiche. “Una lingua è un dialetto con un esercito e una marina” recita un famoso adagio, vale a dire, l’unica differenza fra i due termini di paragone è data dal maggiore o minore ‘prestigio’ (e ciò che ne consegue) acquisito dai due (o più) sistemi linguistici all’interno di una comunità, ma la sostanza linguistica è la stessa. In Italia, pochissimi dialetti vantano lo status ufficiale di lingua, ma i meccanismi che determinano il funzionamento di queste ‘lingue’, da un lato, e del ‘dialetto’ barese, dall’altro, sono perfettamente identici.»
È possibile eliminare da un alfabeto da parte di uno sparuto numero di improvvisati linguisti, di nessuna competenza scientifica, una lettera che è stata sempre usata?
D’ALESSANDRO - «La questione qui è spinosa. Non so a quale proposta lei si riferisca esattamente, ma immagino si tratti di una delle tante proposte di trascrizione della lingua. L’ortografia delle lingue è del tutto convenzionale, e non ne riflette necessariamente la fonetica né la fonologia. È invece il risultato di un accordo “a tavolino”, o a volte della decisione di un singolo che poi viene seguita e adottata da tutti. Quindi, se tutti sono d’accordo, è possibile. In ogni caso, la trascrizione ortografica non ha nessuna importanza dal punto di vista linguistico: è una convenzione, un modo per rappresentare la lingua. I linguisti, per trascrivere le lingue, fanno uso dell’Alfabeto Fonetico Internazionale (IPA), un sistema secondo il quale a ciascun simbolo corrisponde un suono. L’IPA permette a chiunque di sapere come va pronunciata una parola, in qualunque lingua: cinese, araba o barese che sia. Perché allora non usare l’IPA per trascrivere le poesie e i proverbi? Perché l’IPA è un sistema piuttosto complesso, che comprende simboli che non appartengono a nessun alfabeto: simboli come ʃ, ʒ, e ɔ. Tornando al problema della j: a quale suono si riferisce? Alla semivocale? Che la si usi o no nella trascrizione non fa nessuna differenza: basta accordarsi. Si tratta, ripeto, di un problema di convenzione ortografica, e non di linguistica. Il problema è quindi mettersi d’accordo e stabilire un modo per trascrivere il barese.»
ANDRIANI - «Personalmente, non voglio entrare in discussioni che non mi riguardano e che, in sostanza, contribuiscono ben poco alla diffusione del barese o allo studio del suo funzionamento. L’esperienza ci insegna che non è semplice raggiungere un consenso unanime circa il sistema ortografico di una lingua parlata non-standard(izzata). È naturale che la prima scelta ricada sul sistema ortografico condiviso più accessibile (quello italiano moderno, nel nostro caso) o, in alternativa, su sistemi ortografici ‘ad hoc’ che riescano a rappresentare tutti i suoni/fonemi e i relativi fenomeni fonologici di tale lingua. A Bari, alcuni hanno provato a proporre norme ortografiche precise, da Lacalendola a Giovine, ma nessuno è riuscito a stabilirle, forse perché non è davvero questa la priorità. Lo stesso sistema ortografico dell’italiano non riproduce fedelmente tutti i suoni/fonemi presenti in italiano standard (né le varianti articolatorie o altri fenomeni fonologici), ma ciò non costituisce necessariamente un dilemma. Al contrario, la preoccupazione dovrebbe sorgere nel momento in cui l’uso orale di un codice linguistico sia in netto declino. Intendo dire che ciò che davvero mi interessa è che si parli in dialetto. Mi sembra superfluo aspirare alla condivisione di un sistema ortografico se la diffusione orale della lingua che questo deve rappresentare è già alquanto precaria. Nel caso specifico della lettera J, ci fu un periodo nel medioevo in cui questo grafema ebbe ragione d’esistere proprio per la necessità dei parlanti/scrittori di differenziare la vocale piena dalla semivocale, e da allora venne usata fino al secolo scorso (in Verga e Pirandello, per citarne giusto due geograficamente vicini a noi, la lettera J è usata con criterio nei contesti che la richiedono). Negli stessi testi scritti in barese si ritrova frequentemente il grafema incriminato, e ciò può essere determinato dal fatto che gli stessi parlanti/scrittori sentano la necessità di differenziare graficamente i due suoni. Ciò nonostante, ripeto, l’urgenza del momento è ben altra: eliminare la patina d’ignoranza (creata in primo luogo dall’istruzione pubblica) che ricopre i nostri dialetti e che ha portato alla loro stigmatizzazione socio-culturale e alla conseguente diminuzione del loro uso negli ambiti adeguati. Quando dialetto locale e lingua nazionale riusciranno a convivere senza che i parlanti (bilingui!) avvertano il primo come un sistema linguistico subordinato al secondo, magari si potrà decidere di adottare una scrittura omogenea, che presenti, o no, la lettera J.»
Il dialetto barese è considerato, dal punto di vista scientifico, un idioma a livello internazionale?
D’ALESSANDRO - «Non capisco bene la domanda: se vuol sapere se è una lingua di interesse scientifico, che merita di essere studiata, descritta e analizzata: certamente. Oltre al lavoro di Gigi Andriani, pochi lavori contemporanei si occupano del barese: è un peccato, perché si tratta di una lingua estremamente interessante, soprattutto dal punto di vista fonologico molto diversa dalle altre lingue romanze con cui è in contatto, e che, in diverse epoche storiche, l’hanno ovviamente influenzata (prima fra tutte il napoletano).»
ANDRIANI - «Questa domanda mi riguarda da vicino perché, paradossalmente, mi sono avvicinato allo studio del barese proprio all’estero, e tuttora mi ritrovo spesso a parlare di barese in ambienti accademici (e non) internazionali. Il mio interesse per la linguistica e per la dialettologia italiana è nato proprio a Leida, grazie alla Prof.ssa D’Alessandro. Durante i miei studi all’Università di Leida, i dialetti italo-romanzi erano sempre oggetto di discussione: molte delle ipotesi e delle teorie linguistiche in circolazione non avevano ancora (o sufficientemente) ‘fatto i conti’ con le nostre lingue e l’incredibile micro-variazione linguistica che le contraddistingue. Purtroppo, mi resi conto anche che l’interesse della comunità scientifica internazionale per il barese (urbano) era minimo, e ciò era principalmente dovuto all’inaccessibilità dei dati linguistici e alla totale mancanza di analisi di stampo teorico. Per questo motivo, già in territorio ‘internazionale’, decisi di dedicarmi al nostro barese e, in generale, alle varietà (italo-)romanze. Da allora, sempre con la massima umiltà, ho continuato a esportare la mia ricerca sul barese nel paese in cui vivo e lavoro in questo momento (Inghilterra), ma anche oltremanica (Francia, Olanda, Romania) e oltreoceano (Canada e Brasile) grazie a congressi e convegni. Perciò, diamo tempo al tempo.»
Qual è il vostro giudizio sul nostro dialetto?
D’ALESSANDRO - «Credo di avere appena risposto: si tratta di una lingua molto importante e molto interessante, che va assolutamente preservata, innanzitutto parlandola alle generazioni giovani. I genitori parlino il barese ai bambini. Questo, oltre a metterli a parte della loro cultura, li renderà di fatto bilingui (italiano e barese, due lingue diverse), portando loro notevoli vantaggi cognitivi, come la maggiore velocità nel prendere decisioni, l’agilità nel multitasking (multiprogrammazione), e una maggiore capacità di concentrazione.»
ANDRIANI - «La mia risposta sarà ovviamente di parte, visto che è anche il mio dialetto. Per me il barese è una lingua a tutti gli effetti, e come tale andrebbe trattata, senza ‘ma’ e senza ‘se’. Il suo studio è, di conseguenza, di uguale rilevanza scientifica a quello delle lingue (inter)nazionali. La sua utilità non riguarda esclusivamente la conservazione di un’identità linguistica e culturale, ma ha una connessione diretta con le nostre capacità cerebrali. Recenti studi sul bilinguismo (o multilinguismo) hanno evidenziato i numerosi vantaggi cognitivi che questo comporta. Una situazione di bilinguismo ‘consapevole’ contribuirebbe al potenziamento delle capacità cerebrali dei parlanti; tra le più utili (al giorno d’oggi), si farebbe meno fatica ad apprendere un’altra lingua (internazionale), perché già se ne gestiscono ‘consapevolmente’ (almeno) due. Se riuscissimo a implementare i risultati della ricerca scientifica nella quotidianità, potremmo dotare le nuove generazioni di una coscienza linguistica meno ‘prevenuta’ verso la lingua locale (trasmessa oralmente e, quindi, acquisita senza sforzo durante l’infanzia e, successivamente, rafforzata e ‘coltivata’ con l’aiuto di qualsiasi altro mezzo che ne diffonda e ne promuova l’uso). In poche parole, finiremmo per arricchirci in tutti i sensi, al contrario di quanto si è pensato (e insegnato) finora. Da un punto di vista esclusivamente personale, per me il barese è sinonimo di amici, famiglia (nonni soprattutto, dato che alla generazione dei miei genitori fu proibito l’uso del dialetto e, di riflesso, anche alla mia) e di tutto ciò che si ricollega alla mia città natale; in sintesi, barese è sinonimo di intimità.»
Cosa può aggiungere il vostro cronista al riguardo, dal momento che la sua posizione è stata già ampiamente espressa in pubblicazioni e scritti vari, se non testimoniare che le tesi espresse, dai due illustri personaggi che gentilmente hanno risposto alle mie domande, e che ringrazio vivamente, vanno nella direzione del buon senso e della libertà. In un mondo in cui l’apparenza regna sovrana mi è tornata alla mente una quartina del sempre valido e attuale Pietro Trapassi :
Se a ciascun l’interno affanno
si leggesse in fronte scritto,
quanti mai che invidia fanno
ci farebbero pietà.
Ognuno può interpretare i versi nel modo a lui più congeniale, ma la sostanza del ragionamento non si può equivocare.
Vorrei concludere sempre con una veloce intuizione del Metastasio che va gustata a piccoli sorsi in un contesto storico che vede ‘l’infedele’ grande protagonista della nostra esistenza: “Il tempo è infedele a chi ne abusa”.
Mi sembra un valido motivo per porre la parola fine a queste note.
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