vittorio polito
giornalista pubblicista scrittore
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Il dialetto a scuola? Una inezia      pubblicato su: www.giornaledipuglia.com
Qualche anno fa (2009) la Lega propose l’insegnamento del dialetto nelle scuole, cosa quanto mai insensata se solo si considera che in Italia vi sono oltre  8000 Comuni con altrettanti dialetti senza contare delle altre migliaia di derivazione dall’originale. Se poi si considera che nella maggior parte dei Comuni i dialetti sono solo parlate e non esistono quindi grammatiche e dizionari e, soprattutto, insegnanti, allora la frittata è bella e pronta. I dialetti, come detto, sono solo parlate e dal parlare allo scrivere il solco è molto grande da superare, per cui è facile cadere nel baratro. La pronuncia è cosa molto diversa dalla scrittura per cui non si può fare di tutt’erba un fascio. Immaginate un barese che si trasferisce a Roma e che dovrebbe imparare il dialetto romano e se va in qualche altra città dovrebbe imparare un altro dialetto e così via. Cosa ne sarebbe? Certamente una contraddizione dello spirito unitario del nostro Paese, dal momento che i dialetti, sotto certi aspetti, tendono a farci rinchiudere in noi stessi. Pur riconoscendo che il dialetto è una sorta di ‘capasèdde’, un vaso di argilla molto grande paragonabile a quello di Pandora, nella quale sono riposti, storia, cultura,tradizioni, cucina, ecc., proporne lo studio a scuola è stato da molti criticato, sconsigliato e disapprovato. L’attenzione verso le nostre tradizioni può essere senz’altro positiva, ma ritengo del tutto inutile legiferare l’obbligatorietà dello studio dei dialetti a scuola dal momento che la cosa appare molto complessa. Vari e diverse sono state le risposte anche dal mondo politico alla assurda proposta leghista. Secondo l’ex parlamentare Italo Bocchino «Il disegno di legge sui dialetti è ben diverso da quello sul federalismo, non facendo parte del programma di governo. Non c’è pertanto nessun vincolo di maggioranza a votarlo», e poi va detto che sono senz’altro più utili e produttive alcune ore in più di inglese, francese, tedesco, ed oggi anche di arabo e cinese, che qualche ora di dialetto nostrano.
Ed i linguisti che dicono? Luca Serianni, professore ordinario di storia della lingua italiana, è del parere che «Si tratta di una strada non percorribile: si può insegnare una lingua, ma non un dialetto, che non ha alcuna omogeneità. Persino in regioni come il Veneto e la Campania, regioni con una forte connotazione dialettale, non ce n’è uno che si sia imposto. Il poeta Raffaello Baldini diceva che “In dialetto si può parlare con Dio, non si può parlare di Dio”, un ambito, quindi solo familiare e affettivo». Ugo Vignuzzi, professore ordinario di Linguistica Italiana all’Università, sostiene che «I dialetti sono oggetti storici diversi in ogni area culturale, abbiamo tanti dialetti quante aree culturali. Se questo è vero per l’Europa (per esempio in Svizzera c’è un dialetto per ogni cantone), nella tradizione storico-culturale italiana la situazione è differente e più complessa poiché i dialetti si presentano come “lingue delle identità locali” (cfr, E. della Loggia). Da qui nasce un problema sia pratico che teorico. Il problema pratico è che in Italia ci sono circa 10.000 dialetti, se colleghiamo, come la nostra storia impone, identità locali e “comuni”. Il problema teorico è la differenza semantica tra lingua (quella che si può apprendere a scuola) e dialetto che essendo viva e spontanea espressione non formale del parlante è quasi impossibile da insegnare». Matteo Motolese, professore associato di Linguistica italiana all’Università “La Sapienza” di Roma, è del parere che poiché «Nel 2011 si festeggiano i 150 anni dell’Unità d’Italia: in tale contesto non appare contraddittorio cercare di fare emergere le differenze e i particolarismi regionali, tramite lo studio dei dialetti, invece di trovare un modo per rendere sempre più agevole, tramite la cultura comune, la comunicazione tra italiani e stranieri? C’è una contraddizione
evidente, che infatti affiora quotidianamente sulle pagine dei giornali. Sinceramente, ho comunque dei dubbi sul fatto che le tendenze al localismo della Lega, o di altre forze politiche, possano realmente incidere sul lungo periodo. O almeno così mi auguro. Mi pare che si tratti soprattutto di una volontà di essere visibili, di parlare al proprio popolo, di sollecitarne le paure. In ogni caso, non avrei dubbi sul fatto che la scuola italiana abbia maggior bisogno di guardare fuori, all’Europa, che non ai suoi particolarismi». A Bari qualcuno ha tentato di istituire dei corsi di dialetto, nell’ambito di Associazioni o Università della Terza Età, con il risultato che sono state frequentate da un insignificante numero di persone diluitesi nel tempo, prova evidente della inutilità dell’insegnamento e del disinteresse a tale tipo di studio. Pertanto è senz’altro utile tramandare ai posteri quello che siamo stati e che siamo ed i dialetti possono rappresentare quindi una grande risorsa ma solo per attingere ad essi durante le ore scolastiche per innervare l’italiano e per salvare le nostre tradizioni ma certamente non come materia di studio a scuola.
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