vittorio polito
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I dialetti? Un patrimonio da salvare    Giornaledipuglia.com 16 agosto 2018        
I dialetti, com’è noto, rappresentano gli idiomi di determinate  comunità, caratterizzati dall’uso in ristretti ambiti geografici,  diffusi lungo l’arco della penisola e rappresentano un inestimabile  patrimonio linguistico da salvaguardare e diffondere per conservarli  nell’ambito delle realtà regionali, senza dimenticare che essi fanno  parte della storia e delle tradizioni.
La differenza fra l’italiano e i tanti dialetti? Secondo gli esperti,  nessuna. Dal punto di vista linguistico, i dialetti hanno le loro regole  e le loro parole, proprio come la lingua, la differenza sta nella  storia. L’italiano stesso era un dialetto, un dialetto toscano che “ha  fatto carriera”, diffondendosi attraverso la letteratura.

In una trasmissione TV di qualche tempo fa, alcuni esperti affermavano  che il dialetto di Dante, il fiorentino, ha avuto più successo di quello  di Petrarca e Boccaccio, diventando dapprima la lingua degli scrittori e  poi quella degli italiani. In sostanza gli esperti asserivano che “i  dialetti non possono sostituire l’italiano, che è la lingua nazionale,  ma non sono lingue da buttar via: sono una ricchezza in più. Molte  parole dei dialetti oggi sono diventate italiane a tutti gli effetti.  ‘Panettone’ e ‘risotto’ vengono dal milanese, ‘grissino’ viene dal  piemontese, ‘mozzarella’ dal napoletano,‘vestaglia’, ‘gondola’, e  perfino ‘ciao’ vengono dal dialetto di Venezia. Eppure, oggi, chi  direbbe mai che queste parole non sono italiane?”

«Nel corso dell’800 fu invece Manzoni a proporre la diffusione del  fiorentino colto per cercare di raggiungere l’unità linguistica nella  Penisola: i suoi ‘Promessi Sposi’ sono il frutto di una lunga  elaborazione, durata oltre vent’anni e fatta di correzioni e  ripensamenti, soprattutto linguistici. Dopo l’Unità d’Italia fu l’opera  di alfabetizzazione a diffondere l’italiano standard da Nord a Sud, ma  ancora nella prima metà del secolo scorso, durante un ipotetico  incontro, un contadino del sud e un operaio del nord si sarebbero  difficilmente capiti. Nella seconda metà del secolo invece fu essenziale  l’opera svolta dai mezzi di comunicazione: la cosiddetta  ‘paleotelevisione’, termine coniato dallo scrittore Pierpaolo Pasolini  per distinguere la fase statale dell’emissione televisiva italiana dalla  successiva fase commerciale, fu fondamentale nella diffusione di una  lingua unitaria per tutta la penisola. I suoi programmi, dagli intenti  volutamente educativi, riuscirono a diffondere un senso di “italianità”  tanto a Nord quanto a Sud; grazie a loro la lingua ufficiale assorbì gli  influssi di alcuni fra i dialetti più diffusi, fra cui il napoletano di  Totò e il romanesco di Sordi» (Alice Martinelli).
Per Carla Marcato, docente di Linguistica Italiana, “L’Italia è un paese  di eccezionale varietà linguistica, cui contribuiscono l’italiano  standard (con le sue diverse colorazioni regionali), i dialetti e le  minoranze linguistiche”. E oggi come stanno le cose? Secondo Luca Serianni (già docente di  “Storia della lingua italiana” alla “’Sapienza’ di Roma), e Lucilla  Pizzoli (docente di “Linguistica Italiana” all’Università per gli studi  internazionali di Roma - UNINT), in una recente pubblicazione (Storia  illustrata della lingua italiana – Carocci Editore), affermano che “I dialetti restringono a poco a poco il loro ambito d’uso, arrivando sul  finire del secolo a trovarsi in posizione marginale nella comunicazione.  Eppure, è proprio il pieno predominio dell’italiano da parte della  stragrande maggioranza della popolazione a rendere possibile il rilancio  di un nuovo uso del dialetto, visto ora non più come il registro  inevitabile di chi non sa usare l’italiano, ma come quello di chi, ormai  pienamente italianizzato, lo usa consapevolmente per dare espressività e  autenticità al proprio discorso”.
Merita anche un cenno il dialetto barese con le importanti testimonianze  presenti in specifiche pubblicazioni (poesia, poemi, racconti storici,  teatro, commedie, ecc.), di Francesco Saverio Abbrescia, Gaetano  Savelli, Giuseppe De Benedictis, Vitantonio Di Cagno, Alfredo Giovine,  Gaetano Granieri, Giovanni Panza, Vito De Fano, Giuseppe Capriati, Vito  Barracano, Vito Maurogiovanni, Domenico Triggiani, Onofrio Gonnella,  Agnese Palummo, Lorenzo Gentile, Arturo Santoro, Vito Carofiglio,  Marcello Catinella, ed ancora più recentemente, Felice Alloggio, Luigi  Canonico, Enzo Migliardi, Pino Gioia, Emanuele Battista, Peppino Zaccaro  e tantissimi altri. Solo per citarne qualcuno, dal momento che l’elenco  sarebbe troppo lungo.
Secondo Pasquale Sorrenti (1927-2003), poeta, scrittore, giornalista,  autodidatta, è stato anche titolare a Bari di una libreria dal 1947 al  1993, “Il dialetto è un linguaggio vivo, sentito, e quello che più  spesso tiene a mantenersi puro”.

Secondo chi scrive, il dialetto, lingua sorella dell’italiano, rappresenta un patrimonio, non solo come strumento di comunicazione, di  cultura e di esaltazione della parola, ma anche di tradizioni, usi,  costumi, poesia, cucina, proverbi e soprannomi e quindi da insegnare ai  giovani. Il dialetto è anche una forma di linguaggio verbale più  immediata e nello stesso tempo più sofisticata, in quanto riesce ad  imprimere quel tanto di drammatizzazione al nostro parlare, funzionando  l’espressione dialettale come efficace rafforzamento del nostro eloquio.  Infine, è un mezzo linguistico ricco di importanti contenuti storici,  etici ed identitari di chi ci ha preceduti, e quindi di noi stessi, per  cui si rende necessario salvaguardarlo, parlarlo e diffonderlo ai  posteri.

E, per rimanere in tema, mi piace riportare una poesia del grande poeta e  scrittore dialettale Giovanni Panza (1916-1994), barese doc, laureato  in Giurisprudenza, fondò e diresse nel 1948 il settimanale  satirico-sportivo “L’Arciere”. “La checine de nononne – U mangià de li  barise d’aiire e de iosce” (Schena, 1982), rappresenta il suo best  seller ed è tuttora disponibile nelle librerie.

Dialette
di Giovanni Panza
L’amore per il linguaggio avito con il quale si possono esprimere anche i più riposti sentimenti

Percè scrìveche ’ndialette?
Pe prisce e pe dilette;
acquanne tenghe da chendà
ccose viicchie da recherdà

jind’o core tanne senghe
tutte le ccose ca tenghe:
recuerde a mè chiù ccare,
bedde cose, patem’amare;

la passata giovendùte
le speranze ca ssò perdute,
l’amore granne pe le figghie,
la malingonì ca me pigghie



acquanne penze ca non ghiù
che mè stonne; ca nù e dù
remanute sime a nvecchià
p’aspettà de scirne ddà.

Quanne le penziiere brutte
e la mende mènene tutte e
me vòlene assagrà*
e me fàscene male assà

sop’a la carte me mètteche
e tanne me permètteche
de chendarte le fessarì
come u sàcceche fa ji.

* Assalire

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